Recensione

“L’ultima cosa bella sulla faccia della terra”

“L’ultima cosa bella sulla faccia della terra” è il romanzo d’esordio di Michael Bible. Pubblicato da Adelphi un paio di mesi fa, è stato subito un successo. 

Titolo e copertina sono rimbalzati per settimane su tutti i social tanto che, se non fosse stato per il gruppo di lettura, forse non lo avrei neanche letto (magari un giorno parleremo anche di questo)

In effetti è un romanzo che consiglio, soprattutto ai più giovani. La lettura è scorrevole grazie anche all’ottimo lavoro di traduzione di Martina Testa. Si parla di inadeguatezza, paura, solitudine. È un libricino di centotrenta pagine, e te lo bevi in un pomeriggio. 

La trama

“Mentre tutti sono raccolti in preghiera, dall’ultima fila Iggy avanza verso il centro della chiesa. Trema, e la benzina che ha portato con sé per darsi fuoco – come quei bonzi che ha visto in rete – si rovescia. Il fiammifero acceso gli cade di mano. Nel rogo muoiono venticinque fedeli. Diciotto anni più tardi gli abitanti di Harmony, una cittadina del Sud degli Stati Uniti, ancora si portano dentro quel lutto, ancora – come un antico coro – si interrogano e commentano l’accaduto. La loro versione si alterna a quella di altre figure direttamente coinvolte o appena sfiorate dalla tragedia, mentre su tutto si impone, ipnotico e straziante, il racconto del colpevole, rinchiuso nel braccio della morte. Ora che l’esecuzione si avvicina, a Iggy resta solo il rifugio nel sogno – o nel ricordo – di un’altra vita, di mille altre vite. Da dove è scaturita quella decisione estrema e inconsulta? Che cosa gli ha sconvolto la mente? Gli antidolorifici che sniffava, l’alcol e l’eroina? L’amore «selvaggio, cosmico e strano» per Cleo, o quello per Paul, l’amico scomparso «come un temporale che passa sopra la campagna e si dilegua in un batter d’occhio»? O piuttosto quel dolore segreto, quel tedio insopportabile, quello sgomento di fronte a un universo infettato da un oscuro morbo di cui solo loro tre sembravano avere consapevolezza?”

Il potere dell’incipit

“Eravamo innocenti. Convinti di essere speciali. Sbronzi tutti i weekend al centro commerciale. Il mondo era nelle nostre mani. Non ci importava del tempo. L’amore era una cosa scontata. La morte aveva paura di noi. Adesso abbiamo il grigio sulla barba. Il cielo è un livido viola. Il centro commerciale è morto. Siamo i vecchi che avevamo giurato di non diventare mai”. 

“L’ultima cosa bella sulla faccia della terra”, Michael Bible. Adelphi 2023

Se mi parti con un incipit così, hai tutte le porte spalancate, hai già fatto centro. Il lettore è nelle tue mani, lo puoi portare ovunque. Il problema è che poi ce lo devi portare.

Nelle due prime sezioni, il romanzo è perfetto: il ritmo, la musicalità; è poesia pura.

Il racconto di Iggy è toccante, arriva dritto all’anima.

“Se c’è qualcosa che amate, tenetevelo stretto perché non si può mai sapere quando verranno a portarvelo via”.

Poi però la magia si spezza. Nella seconda parte sembra che l’autore inizi un po’ ad arrancare.

Ottima l’idea del romanzo corale. Il cambio di inquadratura e il salto temporale danno al lettore la possibilità di leggere la storia in tutta la sua tridimensionalità. Ma gli altri personaggi non ti “arrivano” come Iggy, ma forse è anche giusto così e che la scena, i riflettori, alla fine siano comunque tutti puntati su di lui.

Lo dimostra anche dal fatto che, se andate a farvi un giro in rete tra le recensioni, quasi nessuno scrive degli altri protagonisti.

“L’ultima cosa bella sulla faccia della terra” è un romanzo da leggere tutto d’un fiato; da buttare giù come uno shottino. Se sorseggiato, rischia di perdere la potenza dell’impatto.

Per il futuro, non mi sorprenderebbe se Netflix non ne realizzasse una serie.

E ora, come sempre, vi lascio l’anteprima e, se l’avete letto, vi aspetto nei commenti.


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